La Legge n.89 del 2001, denominata Legge Pinto, nasce dall’esigenza di garantire a ciascun cittadino un processo celere e rappresenta uno strumento di tutela fondamentale per chi ha subito un procedimento di durata considerata irragionevole.
Tale legge prevede e sancisce il diritto al risarcimento del danno da parte di chi ha subito lungaggini processuali che lo vedono coinvolto.
Il diritto alla ragionevole durata del processo per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, era direttamente identificato nel concetto stesso di uguaglianza, l’art. 10, difatti, enunciava quanto segue: “ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad essere ascoltato, in corretto e pubblico giudizio, da un tribunale indipendente ed imparziale, cui spetti decidere sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi, così come sulla fondatezza di ogni accusa in materia penale mossa e a suo carico”. Nulla veniva disposto esplicitamente in riferimento all’effettiva quantificazione della durata temporale,
Il nostro ordinamento giuridico, invece, nell’art.111 della Costituzione prevede il principio del giusto processo stabilendo che:“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”, e segue, “la legge ne assicura la ragionevole durata.”
È stato, pertanto, necessario individuare i canoni temporali di massima di durata dei processi affinchè vengano considerati leciti e non pregiudizievoli.
La Legge c.d. “Pinto” prevede la durata massima del giudizio di primo grado in 3 anni, in 2 anni nel secondo grado ed, infine, in un anno nel giudizio di legittimità. Tali termini, in ogni caso, si ritengono rispettati anche se in concreto sforino il limite stabilito, qualora il processo si sia comunque concluso in sei anni con sentenza passata in giudicato (art. 2 ter).
Vengono predisposti ulteriori termini per i procedimenti di esecuzione forzata, che si considerano di durata ragionevole se contenuti nel termine di tre anni, e per le procedure concorsuali, che si considerano di durata ragionevole se contenute nel termine di sei anni.
Per valutare e calcolare la durata è necessario distinguere tra processo penale e civile.
Nel caso di un procedimento civile, il termine decorre dal deposito del ricorso introduttivo o dalla notifica dell’atto di citazione.
Alla presenza di un procedimento penale, invece, il termine decorre da quando l’indagato viene a conoscenza del procedimento penale a suo carico mediante un atto dell’autorità giudiziaria.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2-bis, della Legge Pinto nella parte in cui prevedeva che potesse essere considerato termine iniziale per il computo della durata ragionevole del processo penale l’assunzione della qualità di imputato o il momento in cui l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari (sentenza numero 184 del 23 luglio 2015)
È necessaria la sussistenza effettiva del criterio di fondatezza nella domanda civile proposta, che non vi sia intervenuta prescrizione in quella penale, che non vi sia giudizio in contumacia delle parti, che non si sia verificata estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti, che sussista la presenza di domande nuove tali da giustificarne il tempo ulteriore necessario alla trattazione , che non vi si stata mancata richiesta riassunzione o che la pretesa sia considerata irrisoria.
La domanda viene presentata al Presidente della Corte di Appello del distretto in cui ha sede il Giudice innanzi il quale si è svolto il primo grado del processo, con tale procedura viene richiesto all’Autorità Giudiziaria competente di liquidare a titolo risarcimento danni una somma in proporzione al tempo “in eccesso” trascorso per la trattazione e definizione della causa.
Scritto da Avv. Valentina Carravetta